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DOLCE VITA
Messaggioda Ghepard » 05/02/2015 - 15:53
UNA BELLA STORIA MOLTO FUMOSA...
È nato per caso, sotto un temporale estivo e fra sfide imprenditoriali e battaglie esemplari, è diventato forte. Nel 2015 il sigaro Toscano compie duecento anni, durante i quali ha contribuito (soavemente, per i molti che lo amano) a dare un altro sapore all'Italia.
Ci sono grandi storie che nascono per caso. Quella del sigaro Toscano, che quest'anno celebra i 200 anni della sua nascita non voluta, è una di queste. A Firenze quel giorno dell'estate del 1815 pioveva. L'acqua veniva giù a catinelle e quella partita di tabacco Kentucky, piazzata nel cortile della manifattura dell'ex monastero di Santa Caterina delle Ruote, non poteva che inzupparsi. Impossibile recuperarla, pensò sconsolato il direttore dell'opificio. Il tabacco, ormai impregnato d'acqua, non poteva più essere usato per fare i sigari di qualità che tanto andavano di moda all'epoca.
Dopo la pioggia, il sole. Le balle, legate e pressate, fermentarono. Due le alternative: buttare tutto, giocare al ribasso e creare un sigaro di poco costo, avvolto in una sola foglia di tabacco da vendere al popolino. Una soluzione di ripiego, certo, ma quelli della manifattura decisero di provarci lo stesso. Il sigaro Toscano nacque così. Anzi, non proprio. Fino al 1927 si chiamerà Fermentato. Per avere il nome che lo consegnerà alla storia bisognerà attendere un regio decreto.
Quello nato da un temporale era un fumo povero, un sigaro che veniva tagliato in due pezzi per risparmiare. Ma la scelta nata dalla necessità diventerà una caratteristica, anzi un «marchio di fabbrica»: dal 1948 entreranno in commercio i sigari già tagliati, gli ammezzati. Non per tutti, però. Ancora oggi c'è chi lo fuma intero, «alla maremmana». Infatti la tradizione vuole che i butteri, i pastori della Maremma che passano la giornata a cavallo, dovessero avere le mani sempre sulle briglie e quindi non potessero tagliarlo.
Ma ritorniamo al temporale fiorentino. L'azzardo funziona e il popolo (e subito dopo anche i nobili dell'epoca) mostra di gradire quel sigaro dal gusto così diverso. E nel 1818 a Firenze inizia la produzione: prima a Sant'Orsola poi, visto il successo, nelle fabbriche di Sestri Ponente, Modena e Chiaravalle. Nel 1853 decidono di traslocare tutto nella manifattura di Lucca, precisamente nell'ex convento di San Domenico (dove la prodizione è rimasta fino al 2004, quando è stato aperto un nuovo stabilimento nella periferia della città). Le vendite aumentano. Tra l'Ottocento e il Novecento la maggior parte dei circa due miliardi di sigari prodotti in italia sono Toscani.
Non sempre, nel corso del tempo, è andata così bene. A dare un colpo pesantissimo alle vendite arrivarono due imprevisti: nel 1968 il passaggio dalla lavorazione a mano a quella meccanizzata (dal 1881 era stabilito che la fabbricazione dei sigari dovesse svolgersi interamente a mano, «poiché serve l'opera intelligente dell'operaio e l'azione dell'atto ») e intorno agli anni Settanta il vertiginoso aumento del consumo di sigarette. Per il Toscano sembrava non esserci più spazio. Ed erano sempre meno le donne con la voglia di continuare la tradizione delle sigaraie.
E questa è un'altra storia nella storia: quello delle sigaraie era un lavoro (rigoramente fatto a mano) durissimo, da cui gli uomini - considerati inadatti - erano esclusi. La selezione era ferrea: al momento dell'assunzione, le mani di ogni aspirante sigaraia venivano toccate, soppesate e fatte muovere. Una volta assunta e formata, ogni lavoratrice sfornava 500 sigari al giorno, in condizioni di lavoro tutt'altro che favorevoli. Tra loro nacque una fortissima solidarietà sociale e sindacale, e furono le protagoniste di una delle prime lotte per la tutela dei diritti sul lavoro.
Nel 1874 le sigaraie della manifattura di Sant'Orsola di Firenze scioperarono, e riuscirano a trascinare nella loro battaglia anche le colleghe delle altre manifatture. Volevano più soldi, condizioni di lavoro più sane e un tabacco migliore da lavorare. Vinsero. E videro aumentare la paga per il cottimo da 21 a 25 centesimi ogni cento sigari. Era solo l'inizio. Nel 1914 incrociarono nuovamente le braccia, questa volta chiedendo asili nido nel posto di lavoro. E dopo una lunga lotta li ottennero.
Gli anni passano, tutto o quasi cambia, e a partire dal 1970 lo scenario è radicalmente diverso: macchine e calo delle vendite hanno ormai relegato il Toscano in una nicchia per pochi fedelissimi. Poi, nel 1985, una nuova prospettiva: Giuseppe Spaziante, direttore della Manifattura di Lucca, scommette sul rilancio della lavorazione a mano. Recupera 17 sigaraie e crea il Toscano Originale (oggi a farlo sono in 30). L'idea di tornare alle vecchie ricette è vincente e per il Toscano le cose ricominciano a funzionare. Fino al definitivo rilancio negli anni Novanta, con nuove varietà (comprese quelle aromatizzate, una concessione alle nuove generazioni di appassionati).
Nel frattempo la proprietà della società è passata di mano più volte. Dal 1999 al 2004 è stata in capo all'Ente tabacchi italiani Spa, dal 2004 al luglio del 2006 alla British tabacco Italia, poi il gruppo Maccaferri ha acquito la proprietà del sigaro Toscano, compresi gli stabilimenti di Lucca e Cava de' Tirreni (dove la tradizione fa risalire le prime coltivazioni di tabacco ai tempi del governo Murat) e della premanifattura di Foiano della Chiana. E nel 2013 la Manifatture Sigaro Toscano Spa, che controlla oltre il 30 per cento del mercato italiano dei sigari, ha chiuso i conti con un fatturato di 90 milioni di euro.
Bilanci in attivo a parte, quel che conta è sottolineare che le avventure di questo sigaro scuro, stortignaccolo e dall'aroma soave per chi lo ama (e pestilenziale per chi lo detesta) servono anche per ricapitolare la storia d'Italia, dall'arte alla letteratura, dalla politica alla musica. Aristrocratico e al tempo stesso popolare, lontano anni luce dall'altezzosa solennità degi Avana status symbol di ricchezza, il Toscano è il sigaro di tutti.
Dell'intellettuale, del contadino e persino dei briganti, quando c'erano. Lo fumava Garibaldi ferito in Aspromonte. Ha accompagna Mazzini e il suo sogno di un'Italia unita. Lo teneva sempre in bocca Verdi mentre scrive le sue opere e Mascagni componendo la Cavalleria rusticana. Modigliani ne ha fatto un inseparabile compagno. E Vittorio Emanuele II diceva che «un mezzo toscano e una croce da cavaliere non si negano a nessuno».
Nel cinema, Pietro Germi gli ha dato una parte di una certa rilevanza: sulle labbra di Saro Urzì ne Il brigante di Tacca del Lupo (1952) e fumandolo lui stesso ne Il ferroviere (1955) e in Un maledetto imbroglio (1958). Sergio Leone l'ha reso celebre appendedolo alla labbra di Clint Eastwood (che però si dice non lo amasse molto) e Burt Lancaster nel Gattopardo di Visconti assiste, con un Toscano, alla fine della monarchia borbonica.
Mario Soldati, suo incallito estimatore fino a 92 anni, diceva che il fumo di questo sigaro è «incenso laico», e ha invocato per quelle foglie arrotolate («una delle poche cose genuine che ci restano») la denominazione di origine controllata, «come per il Barolo ». E poi Puccini, Pascoli, Ungaretti, De Chirico, De Pisis... Fino a oggi, e a un attore come Toni Servillo o alla cantante Nada. Ad alcuni celebri intenditori sono stati dedicati i cosiddetti «sigari d'autore»: i Garibaldi, i Modigliani e i Soldati. L'ultimo nato? Si chiama Opera. E la storia, fumosamente, ma con precisione, continua.
È nato per caso, sotto un temporale estivo e fra sfide imprenditoriali e battaglie esemplari, è diventato forte. Nel 2015 il sigaro Toscano compie duecento anni, durante i quali ha contribuito (soavemente, per i molti che lo amano) a dare un altro sapore all'Italia.
Ci sono grandi storie che nascono per caso. Quella del sigaro Toscano, che quest'anno celebra i 200 anni della sua nascita non voluta, è una di queste. A Firenze quel giorno dell'estate del 1815 pioveva. L'acqua veniva giù a catinelle e quella partita di tabacco Kentucky, piazzata nel cortile della manifattura dell'ex monastero di Santa Caterina delle Ruote, non poteva che inzupparsi. Impossibile recuperarla, pensò sconsolato il direttore dell'opificio. Il tabacco, ormai impregnato d'acqua, non poteva più essere usato per fare i sigari di qualità che tanto andavano di moda all'epoca.
Dopo la pioggia, il sole. Le balle, legate e pressate, fermentarono. Due le alternative: buttare tutto, giocare al ribasso e creare un sigaro di poco costo, avvolto in una sola foglia di tabacco da vendere al popolino. Una soluzione di ripiego, certo, ma quelli della manifattura decisero di provarci lo stesso. Il sigaro Toscano nacque così. Anzi, non proprio. Fino al 1927 si chiamerà Fermentato. Per avere il nome che lo consegnerà alla storia bisognerà attendere un regio decreto.
Quello nato da un temporale era un fumo povero, un sigaro che veniva tagliato in due pezzi per risparmiare. Ma la scelta nata dalla necessità diventerà una caratteristica, anzi un «marchio di fabbrica»: dal 1948 entreranno in commercio i sigari già tagliati, gli ammezzati. Non per tutti, però. Ancora oggi c'è chi lo fuma intero, «alla maremmana». Infatti la tradizione vuole che i butteri, i pastori della Maremma che passano la giornata a cavallo, dovessero avere le mani sempre sulle briglie e quindi non potessero tagliarlo.
Ma ritorniamo al temporale fiorentino. L'azzardo funziona e il popolo (e subito dopo anche i nobili dell'epoca) mostra di gradire quel sigaro dal gusto così diverso. E nel 1818 a Firenze inizia la produzione: prima a Sant'Orsola poi, visto il successo, nelle fabbriche di Sestri Ponente, Modena e Chiaravalle. Nel 1853 decidono di traslocare tutto nella manifattura di Lucca, precisamente nell'ex convento di San Domenico (dove la prodizione è rimasta fino al 2004, quando è stato aperto un nuovo stabilimento nella periferia della città). Le vendite aumentano. Tra l'Ottocento e il Novecento la maggior parte dei circa due miliardi di sigari prodotti in italia sono Toscani.
Non sempre, nel corso del tempo, è andata così bene. A dare un colpo pesantissimo alle vendite arrivarono due imprevisti: nel 1968 il passaggio dalla lavorazione a mano a quella meccanizzata (dal 1881 era stabilito che la fabbricazione dei sigari dovesse svolgersi interamente a mano, «poiché serve l'opera intelligente dell'operaio e l'azione dell'atto ») e intorno agli anni Settanta il vertiginoso aumento del consumo di sigarette. Per il Toscano sembrava non esserci più spazio. Ed erano sempre meno le donne con la voglia di continuare la tradizione delle sigaraie.
E questa è un'altra storia nella storia: quello delle sigaraie era un lavoro (rigoramente fatto a mano) durissimo, da cui gli uomini - considerati inadatti - erano esclusi. La selezione era ferrea: al momento dell'assunzione, le mani di ogni aspirante sigaraia venivano toccate, soppesate e fatte muovere. Una volta assunta e formata, ogni lavoratrice sfornava 500 sigari al giorno, in condizioni di lavoro tutt'altro che favorevoli. Tra loro nacque una fortissima solidarietà sociale e sindacale, e furono le protagoniste di una delle prime lotte per la tutela dei diritti sul lavoro.
Nel 1874 le sigaraie della manifattura di Sant'Orsola di Firenze scioperarono, e riuscirano a trascinare nella loro battaglia anche le colleghe delle altre manifatture. Volevano più soldi, condizioni di lavoro più sane e un tabacco migliore da lavorare. Vinsero. E videro aumentare la paga per il cottimo da 21 a 25 centesimi ogni cento sigari. Era solo l'inizio. Nel 1914 incrociarono nuovamente le braccia, questa volta chiedendo asili nido nel posto di lavoro. E dopo una lunga lotta li ottennero.
Gli anni passano, tutto o quasi cambia, e a partire dal 1970 lo scenario è radicalmente diverso: macchine e calo delle vendite hanno ormai relegato il Toscano in una nicchia per pochi fedelissimi. Poi, nel 1985, una nuova prospettiva: Giuseppe Spaziante, direttore della Manifattura di Lucca, scommette sul rilancio della lavorazione a mano. Recupera 17 sigaraie e crea il Toscano Originale (oggi a farlo sono in 30). L'idea di tornare alle vecchie ricette è vincente e per il Toscano le cose ricominciano a funzionare. Fino al definitivo rilancio negli anni Novanta, con nuove varietà (comprese quelle aromatizzate, una concessione alle nuove generazioni di appassionati).
Nel frattempo la proprietà della società è passata di mano più volte. Dal 1999 al 2004 è stata in capo all'Ente tabacchi italiani Spa, dal 2004 al luglio del 2006 alla British tabacco Italia, poi il gruppo Maccaferri ha acquito la proprietà del sigaro Toscano, compresi gli stabilimenti di Lucca e Cava de' Tirreni (dove la tradizione fa risalire le prime coltivazioni di tabacco ai tempi del governo Murat) e della premanifattura di Foiano della Chiana. E nel 2013 la Manifatture Sigaro Toscano Spa, che controlla oltre il 30 per cento del mercato italiano dei sigari, ha chiuso i conti con un fatturato di 90 milioni di euro.
Bilanci in attivo a parte, quel che conta è sottolineare che le avventure di questo sigaro scuro, stortignaccolo e dall'aroma soave per chi lo ama (e pestilenziale per chi lo detesta) servono anche per ricapitolare la storia d'Italia, dall'arte alla letteratura, dalla politica alla musica. Aristrocratico e al tempo stesso popolare, lontano anni luce dall'altezzosa solennità degi Avana status symbol di ricchezza, il Toscano è il sigaro di tutti.
Dell'intellettuale, del contadino e persino dei briganti, quando c'erano. Lo fumava Garibaldi ferito in Aspromonte. Ha accompagna Mazzini e il suo sogno di un'Italia unita. Lo teneva sempre in bocca Verdi mentre scrive le sue opere e Mascagni componendo la Cavalleria rusticana. Modigliani ne ha fatto un inseparabile compagno. E Vittorio Emanuele II diceva che «un mezzo toscano e una croce da cavaliere non si negano a nessuno».
Nel cinema, Pietro Germi gli ha dato una parte di una certa rilevanza: sulle labbra di Saro Urzì ne Il brigante di Tacca del Lupo (1952) e fumandolo lui stesso ne Il ferroviere (1955) e in Un maledetto imbroglio (1958). Sergio Leone l'ha reso celebre appendedolo alla labbra di Clint Eastwood (che però si dice non lo amasse molto) e Burt Lancaster nel Gattopardo di Visconti assiste, con un Toscano, alla fine della monarchia borbonica.
Mario Soldati, suo incallito estimatore fino a 92 anni, diceva che il fumo di questo sigaro è «incenso laico», e ha invocato per quelle foglie arrotolate («una delle poche cose genuine che ci restano») la denominazione di origine controllata, «come per il Barolo ». E poi Puccini, Pascoli, Ungaretti, De Chirico, De Pisis... Fino a oggi, e a un attore come Toni Servillo o alla cantante Nada. Ad alcuni celebri intenditori sono stati dedicati i cosiddetti «sigari d'autore»: i Garibaldi, i Modigliani e i Soldati. L'ultimo nato? Si chiama Opera. E la storia, fumosamente, ma con precisione, continua.
...non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare...
Re: DOLCE VITA
Messaggioda Ghepard » 05/02/2015 - 15:59
Lo Zuckerberg italiano fa incontrare aziende e lavoratori. "Sarà milionario"
Nemo profeta in patria, si diceva un tempo per indicare quella difficoltà a emergere in casa propria. Fuori sembra più facile veder riconosciuti talento e capacità. È quello che sta accadendo a Matteo Achilli, 22 anni, romano, studente di economia aziendale alla Bocconi di Milano, fondatore di Egomnia, social network che fa incontrare aziende e aspiranti lavoratori classificando in base a un algoritmo i curricula degli scritti. Dopo una certa diffidenza incontrata in patria, la Bbc lo ha inserito tra i Next Billionaires, i miliardari del futuro. Tra pochi mesi, inoltre, come riporta il sito della tv inglese che gli dedica anche un videoritratto, Egomnia, che secondo il fondatore è utilizzato da circa 250mila giovani e 700 aziende, aprirà il suo primo ufficio fuori dall'Italia, a San Paolo del Brasile.
Achilli comincia la sua impresa nel marzo 2012. Si fa notare, escono i primi articoli, il settimanale PanoramaEconomy gli dedica una copertina definendolo lo “Zuckerberg italiano”, perché come il fondatore di Facebook è un ventenne, ha un’idea social ed è determinato. Ma non particolarmente amato. Destinatario di un'attenzione immotivata, dicono alcuni noti blogger e startupper italiani, che gli rimproverano un sito poco intuitivo e funzionale, ancora in una versione beta, cioè di prova. Insomma, a sentire le “voci” dell’ecosistema (o dell’invidia?), solo una meteora alimentata dalla luce ingiustificata dei media.
Due anni dopo però la creatura di Matteo Achilli è ancora in piedi e pronta al grande salto. Grazie anche al sostegno di grandi nomi come Vodafone, Bulgari e Ericsson, ai quali si somma l'interesse del presidente di Assicurazioni Generali, Gabriele Galateri di Genola, che alla BBC dice: "All'inizio avevo dei dubbi sul progetto perché spesso non è facile cambiare il proprio modo di fare le cose, soprattutto in grandi aziende come la nostra. Ma adesso stiamo per firmare un contratto”. A questo importante riconoscimento si somma la “sponsorizzazione” di uno dei colossi digitali, Microsoft. Anders Nilsson, direttore della divisione Developer and Platform Evangelism dell'azienda fondata da Bill Gates, spiega che quando si intercetta una buona idea non c'è tempo da perdere. "Bisogna supportarla ed esportarla velocemente, altrimenti potrebbero arrivare altri con un progetto simile e passarti avanti”, dice alla BBC.
Insomma il giovane Achilli sembra aver trovato l’attenzione che merita. Che è stata moltiplicata dalla ripresa del video BBC da parte del magazine digitale americano Business Insider, che è la bibbia della nuova industria digitale globale.
"A volte dimentico di avere 22 anni", dice alla BBC Matteo Achilli, che insieme alla gestione dell'azienda, valutata nel 2013 mezzo milione di dollari, cerca di trovare il tempo per portare avanti gli studi universitari. Proprio alla Bocconi Matteo, durante il suo primo anno, ha ricevuto la spinta iniziale per far partire Egomnia: un altro studente aveva infatti scritto della sua idea e la notizia era stata ripresa dai media nazionali. “Il progetto è stato avviato senza aiuti – continua - perché in Italia non esiste un ecosistema di venture capital e incubatori. Il mio primo business angel è stato mio padre”. E adesso gira voce di una possibile collaborazione con Google. “I giovani stanno riscrivendo la storia di internet”, dice Matteo. “All'inizio pensavo che la mia giovane età fosse un limite, oggi ho capito che è la fonte del mio successo”. La BBC annuncia che è in produzione un film sulla vita di Matteo: gli era perfino stato chiesto di interpretare se stesso ma ha rifiutato. Tra gli esami e un'azienda da gestire non è che il tempo gli avanzi.
Nemo profeta in patria, si diceva un tempo per indicare quella difficoltà a emergere in casa propria. Fuori sembra più facile veder riconosciuti talento e capacità. È quello che sta accadendo a Matteo Achilli, 22 anni, romano, studente di economia aziendale alla Bocconi di Milano, fondatore di Egomnia, social network che fa incontrare aziende e aspiranti lavoratori classificando in base a un algoritmo i curricula degli scritti. Dopo una certa diffidenza incontrata in patria, la Bbc lo ha inserito tra i Next Billionaires, i miliardari del futuro. Tra pochi mesi, inoltre, come riporta il sito della tv inglese che gli dedica anche un videoritratto, Egomnia, che secondo il fondatore è utilizzato da circa 250mila giovani e 700 aziende, aprirà il suo primo ufficio fuori dall'Italia, a San Paolo del Brasile.
Achilli comincia la sua impresa nel marzo 2012. Si fa notare, escono i primi articoli, il settimanale PanoramaEconomy gli dedica una copertina definendolo lo “Zuckerberg italiano”, perché come il fondatore di Facebook è un ventenne, ha un’idea social ed è determinato. Ma non particolarmente amato. Destinatario di un'attenzione immotivata, dicono alcuni noti blogger e startupper italiani, che gli rimproverano un sito poco intuitivo e funzionale, ancora in una versione beta, cioè di prova. Insomma, a sentire le “voci” dell’ecosistema (o dell’invidia?), solo una meteora alimentata dalla luce ingiustificata dei media.
Due anni dopo però la creatura di Matteo Achilli è ancora in piedi e pronta al grande salto. Grazie anche al sostegno di grandi nomi come Vodafone, Bulgari e Ericsson, ai quali si somma l'interesse del presidente di Assicurazioni Generali, Gabriele Galateri di Genola, che alla BBC dice: "All'inizio avevo dei dubbi sul progetto perché spesso non è facile cambiare il proprio modo di fare le cose, soprattutto in grandi aziende come la nostra. Ma adesso stiamo per firmare un contratto”. A questo importante riconoscimento si somma la “sponsorizzazione” di uno dei colossi digitali, Microsoft. Anders Nilsson, direttore della divisione Developer and Platform Evangelism dell'azienda fondata da Bill Gates, spiega che quando si intercetta una buona idea non c'è tempo da perdere. "Bisogna supportarla ed esportarla velocemente, altrimenti potrebbero arrivare altri con un progetto simile e passarti avanti”, dice alla BBC.
Insomma il giovane Achilli sembra aver trovato l’attenzione che merita. Che è stata moltiplicata dalla ripresa del video BBC da parte del magazine digitale americano Business Insider, che è la bibbia della nuova industria digitale globale.
"A volte dimentico di avere 22 anni", dice alla BBC Matteo Achilli, che insieme alla gestione dell'azienda, valutata nel 2013 mezzo milione di dollari, cerca di trovare il tempo per portare avanti gli studi universitari. Proprio alla Bocconi Matteo, durante il suo primo anno, ha ricevuto la spinta iniziale per far partire Egomnia: un altro studente aveva infatti scritto della sua idea e la notizia era stata ripresa dai media nazionali. “Il progetto è stato avviato senza aiuti – continua - perché in Italia non esiste un ecosistema di venture capital e incubatori. Il mio primo business angel è stato mio padre”. E adesso gira voce di una possibile collaborazione con Google. “I giovani stanno riscrivendo la storia di internet”, dice Matteo. “All'inizio pensavo che la mia giovane età fosse un limite, oggi ho capito che è la fonte del mio successo”. La BBC annuncia che è in produzione un film sulla vita di Matteo: gli era perfino stato chiesto di interpretare se stesso ma ha rifiutato. Tra gli esami e un'azienda da gestire non è che il tempo gli avanzi.
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